La Cassazione amplia l’ambito di applicazione della reintegrazione ai sensi dell’art. 18 comma 4 dello Statuto

Con la sentenza n.11665 dello scorso 11 aprile (replicata dalla successiva n.12745 del 21 aprile) la Cassazione fornisce un’interpretazione dell’art.18 comma 4 dello Statuto dei lavoratori che amplia la possibilità di ottenere la reintegrazione in caso di licenziamento comminato per condotte “punibili con sanzioni conservative sulla base della previsione dei contratti collettivi” . Secondo la Suprema Corte tale disposizione non implica la necessità che la condotta contestata sia riconducibile ad un’ipotesi esplicitamente tipizzata dal contratto collettivo, ma permette al giudice di ordinare la reintegrazione anche in presenza di clausole generali o disposizioni generiche alle quali la condotta del lavoratore è riconducibile in via interpretativa.

Decreto “Riaperture”: resta la sospensione dal lavoro per i non vaccinati nella sanità

Dal primo aprile, con l’entrata in vigore del decreto legge n. 24 del 24 marzo,  la sospensione del rapporto di lavoro con perdita della retribuzione per chi non ha adempiuto l’obbligo vaccinale resta solo per il personale sanitario e impiegato nelle RSA. Per gli altri lavoratori sottoposti all’obbligo vaccinale (che resta fino al 15 giugno), l’accesso al lavoro diventa possibile con il c.d. green pass base (cioè con tampone negativo). Il personale docente non vaccinato viene assegnato ad attività di sostegno all’istituzione scolastica che non comportano il contatto con gli alunni.

Prorogati fino al 30 giugno i termini per il superamento del regime emergenziale del lavoro agile, nel settore privato: resta dunque la possibilità per il datore di disporlo unilateralmente, senza l’accordo con il lavoratore.

La Cassazione penale precisa i presupposti del reato di caporalato

Con sentenza n. 7861 del 4 marzo 2022, la IV sezione penale della Corte di Cassazione ha fornito importanti chiarimenti per identificare i reati di intermediazione illecita (il c.d. caporalato commesso dall’ “intermediario”) e di sfruttamento del lavoro (commesso dal datore) di cui all’art. 603-bis del codice penale, i cui elementi costitutivi sono la “condizione di sfruttamento” del lavoratore e l’ “approfittamento dello stato di bisogno” da parte dell’autore del reato. Riguardo al primo elemento della fattispecie, la condizione di sfruttamento può sussistere anche nei confronti di un solo lavoratore e può essere ricavata dal giudice dalla sussistenza di uno solo degli indici elencati dal comma 3, da ritenersi non tassativi; mentre lo stato di bisogno, da cui l’autore del reato intende trarre vantaggio, consiste in una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni di lavoro particolarmente svantaggiose.

I contratti di prossimità ex art. 8 d.l. 138/11 al giudizio della Corte costituzionale

La Corte d’Appello di Napoli, con ordinanza dello scorso 3 febbraio, ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità per violazione degli art. 2 e 39, comma 1 e 4 Cost. in relazione all’art. 8 d.l. 138/11, ovvero la disposizione che legittima la derogabilità in sede decentrata della legge e dei contratti collettivi nazionali attraverso la stipula dei c.d. accordi di prossimità. Secondo il giudice partenopeo, il limite costituzionale all’attribuzione ai contratti collettivi dell’efficacia erga omnes per legge riguarda anche i contratti aziendali, e non solo quelli di categoria come sostenuto da parte della dottrina.

La Corte di giustizia si esprime sulle “soluzioni ragionevoli” da adottare per evitare il licenziamento di un disabile

Con la sentenza XXX c. HR Rail SA del 10 febbraio scorso (causa C-485/20), la Corte di giustizia fa propria una nozione ampia di “soluzioni ragionevoli” che il datore deve adottare (ai sensi dell’art. 5, direttiva 2000/78) per evitare il licenziamento di un lavoratore disabile  in caso di sopraggiunta inidoneità a svolgere le proprie mansioni, ricomprendendovi anche l’assegnazione ad un diverso posto di lavoro per il quale disponga delle competenze, delle capacità e delle disponibilità. Tale obbligo grava sul datore anche in relazione ad un lavoratore assunto come tirocinante. Resta il limite dell’ “onere sproporzionato” che lo stesso art. 5 prevede non possa essere addossato al datore. Per effettuare una valutazione in merito “è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”.

La Corte costituzionale giustifica il diniego del reddito di cittadinanza agli stranieri non soggiornanti di lungo periodo

La Corte costituzionale con la sentenza 19/22 depositata il 25 gennaio dichiara infondate le questioni di costituzionalità sollevate dal Tribunale di Bergamo in relazione al requisito che condiziona il diritto al reddito di cittadinanza al possesso del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo,  ovvero all’aver soggiornato per almeno 10 anni sul territorio nazionale (art.2, comma 1, lett. a, n.1, L. 26/19). Secondo la Consulta tale requisito non violerebbe nessun diritto fondamentale della persona (ex art.2 Cost) nè il principio di non discriminazione (ex 3 Cost. e art. 14 CEDU, invocato come norma interposta ai sensi dell’art.117, comma 1 Cost.) in quanto il reddito di cittadinanza deve considerarsi una misura di politica attiva e non una prestazione meramente assistenziale e non è quindi finalizzato a soddisfare vitali esigenze di sostentamento del destinatario. La decisione mal si concilia con la coeva sentenza con la quale la stessa Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali le norme che subordinano la concessione agli stranieri extracomunitari del bonus bebè e dell’assegno di maternità alla condizione che siano titolari del permesso per soggiornanti UE di lungo periodo.

Introdotto l’obbligo di green pass rafforzato in tutti i luoghi di lavoro per gli over 50 (dal 15 febbraio)

Il d.l. n. 1 del 7 gennaio introduce l’obbligo vaccinale per tutti i cittadini italiani e stranieri residenti in Italia che abbiano compiuto i cinquant’anni di età. A partire dal prossimo 15 febbraio e fino al 15 giugno, la mancata esibizione della certificazione verde Covid-19 al momento dell’accesso al lavoro determina la sospensione dal lavoro con diritto al mantenimento del posto e perdita della retribuzione, nonchè di qualsiasi altro compenso o emolumento (art. 1, comma 4). La misura è giustificata dal “fine di tutelare la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro”; bene evidentemente da considerarsi prevalente rispetto al diritto alla retribuzione (art. 36 comma 1) ed al lavoro (art.4), in un contesto di emergenza epidemiologica. Il suo mantenimento in presenza di bassi indici di contagio potrebbe tuttavia sollevare legittimi dubbi di costituzionalità.