L’intento dichiarato della Legge n. 76 del 15 maggio 2025 (in vigore dal 10 giugno) è di dare attuazione all’art. 46 Cost. attraverso disposizioni che introducono nell’ordinamento forme di “partecipazione gestionale,
economica e finanziaria, organizzativa e consultiva dei lavoratori
alla gestione, all’organizzazione, ai profitti e ai risultati nonche’
alla proprieta’ delle aziende” (art. 1). In realtà la legge (radicalmente emendata rispetto all’originaria proposta promossa dalla CISL) lascia il perseguimento di tale epocale finalità in mano ai datori di lavoro, che “possono” ammettere rappresentanti dei lavoratori all’interno dei consigli di sorveglianza e di amministrazione delle aziende (artt. 3 e 4). Quanto alla partecipazione agli utili e finanziaria, le nuove norme si risolvono in un (debole) incentivo fiscale alla sua introduzione per via negoziale (artt. 5 e 6). In cambio di tutto ciò (cioè poco o nulla), si profila il rischio di un’indebolimento dei diritti sindacali esistenti, che permettono l’esercizio di un effettivo contro-potere nei luoghi di lavoro. Preoccupano soprattutto le disposizioni relative alla partecipazione “consultiva” (artt. 9 e 10), per il possibile effetto di “erosione” dei diritti di informazione e consultazione, già presidiati da un ampio e solido apparato normativo di origine unionale, nonchè del diritto alla contrattazione collettiva.
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Bollettino-3-2025
La Cassazione legittima le forme di lotta sindacale diverse dallo sciopero grazie ad una innovativa valorizzazione delle fonti internazionali
La sentenza della Cassazione n. 2596 dello scorso 11 aprile può segnare un significativo passo avanti nella giurisprudenza nazionale in materia di conflitto sindacale. I Giudici di legittimità infatti riconoscono che qualsiasi forma di lotta sindacale costituisca espressione del diritto all’azione collettiva, che comprende ma non si esaurisce nel diritto di sciopero sancito dall’art. 40 Cost. Se infatti quest’ultimo implica necessariamente l’astensione dal lavoro, la prima può integrare anche condotte “attive” dei lavoratori, espressione comunque del più ampio principio di libertà sindacale garantito dall’art. 39 Cost. A questa conclusione la Cassazione giunge valorizzando anche le fonti internazionali, in specie quelle europee, che attribuiscono rilievo di diritto fondamentale al “diritto di azioni collettive” (art. 6.2 della Carta sociale europea e art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE). Nel caso di specie, ciò ha comportato il riconoscimento della nullità dei licenziamenti intimati a dei lavoratori che avevano rifiutato di svolgere l’attività secondo turni imposti unilateralmente dall’azienda. Ne consegue un cambio di orientamento nella giurisprudenza sul c.d. sciopero delle mansioni, ad oggi consolidata nel considerarlo illegittimo.
Con il c.d. decreto sicurezza diventa reato il blocco stradale attuato con il proprio corpo: a rischio la libertà sindacale
Approvato il c.d. decreto “sicurezza” (d.l. 11 aprile 2025, n. 48), in evidente spregio dei requisiti di necessità e urgenza richiesti dall’art. 76 Cost. per l’adozione dei decreti legge. Tra le innumerevoli disposizioni liberticide contenute nel decreto, rischia di incidere pesantemente sulla libertà sindacale l’art. 14 (di riforma degli artt. 1 e 1-bis del d.lgs. n. 66 del 1948, “Norme per assicurare la libera circolazione sulle strade ferrate ed ordinarie e la libera navigazione”) che, modificando le già repressive disposizioni introdotte dal c.d. decreto Salvini (d.l. 113/18), rende penalmente perseguibili anche le condotte che ostacolano la circolazione stradale attraverso forme di resistenza passiva (c.d. barriera umana), sino ad oggi sanzionate soltanto per via amministrativa. Il blocco stradale causato (dolosamente o colposamente) con il proprio corpo espone adesso chi lo realizza alla pena della multa fino a 300 euro e la reclusione fino a un mese, che può arrivare a due anni se la condotta è collettiva; cioè sempre quando è realizzato nel contesto di un conflitto sindacale
Bollettino-2-2025
Incostituzionale il requisito di residenza decennale per l’accesso al reddito di cittadinanza: ragionevole prevederne uno di 5 anni
La Corte costituzionale dichiara l’incostituzionalità della disciplina, ormai non più in vigore, del reddito di cittadinanza, per contrarietà con l’art. 3 Cost del requisito di decennale residenza in Italia che essa poneva a condizione della sua erogazione (sentenza n. 31/25 depositata il 20 marzo). Tale requisito deve considerarsi contrario all’art. 3 Cost. in quanto irragionevole, cioè di durata eccessiva. Tuttavia, è ammissibile (anzi, perfino doveroso) condizionare l’erogazione di tale prestazione al requisito di 5 anni, che garantisce l’esistenza di minimo radicamento territoriale del cittadino straniero in Italia. La discriminazione che ne consegue (di natura indiretta), è infatti giustificata da ragioni oggettive, prima fra tutte l’esigenza di garantire l’equilibrio delle finanze pubbliche. L’effetto della sentenza si proietta anche sulla vigente disciplina dell’assegno di inclusione che ha sostituito il reddito di cittadinanza, legittimando sul piano costituzionalmente il requisito quinquiennale di residenza previsto per la sua erogazione.
Bollettino-1-2025
Richiesto alla Corte di giustizia l’annullamento della direttiva sui salari minimi adeguati nell’UE: l’Avvocato Generale dà ragione alla Danimarca
L’Avvocato Generale Emiliou, nelle sue conclusioni depositate il 15 gennaio, chiede alla Corte di giustizia di accogliere il ricorso della Danimarca per ottenere l’annullamento della direttiva 2022/2041 sui salari minimi adeguati nell’UE. La direttiva sarebbe stata adottata dalle istituzioni europee violando la ripartizione di competenze tra Stati e Unione prevista dal Trattato sul funzionamento dell’UE, che esclude espressamente la possibilità per l’UE di legiferare in materia di “retribuzione” (art. 153(5)). Non avrebbe fondamento la pretesa di giustificare la direttiva sulla base della pregressa giurisprudenza della Corte di giustizia che ammette interventi che incidono solo “indirettamente” su materie non di spettanza dell’UE. Nel caso di specie, secondo l’AG, si tratterebbe invece di una normativa che interferisce direttamente sui sistemi nazionali di determinazione dei salari, come per altro si ricava dal suo stesso titolo. Entra fine anno si attende la decisione della Corte che, se adesiva alle conclusioni dell’AG, vanificherebbe il più significativo sforzo delle istituzioni dell’UE di dare sostanza all’Europa sociale.
Più strumenti contro il dumping contrattuale con l’entrata in vigore del c.d. correttivo al Codice dei contratti pubblici
Con l’adozione del c.d. correttivo al Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 209/24 di modifica del d.lgs. 36/23, in vigore dal 31 dicembre 2024) si forniscono alle stazioni appaltanti indicazioni più precise per attuare l’art. 11 del codice, onde garantire ai lavoratori trattamenti economici e normativi almeno pari a quelli previsti dal CCNL leader. In particolare, l’Allegato I.01 al codice prevede che la stazione appaltante debba indicare nel bando il codice Ateco relativo all’attività oggetto dell’appalto per indivuare i corrispondenti CCNL depositati nell’archivio CNEL; tra questi va selezionato il CCNL firmato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative utilizzato dal Ministero del lavoro per redigere le tabelle sul costo medio del lavoro (art.2 dell’allegato). Si precisano poi i criteri per effettuare la valutazione sull’equivalenza delle tutele, nel caso in cui l’offerente applichi un diverso CCNL (art. 3 e 4 dell’allegato)