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Sì dalla Consulta al congedo di paternità obbligatorio per la madre “intenzionale” nelle coppie dello stesso sesso
Con la sentenza n. 115 del 21 luglio, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 27-bis, d.lgs. n. 151/2001, nella parte in cui non riconosce il congedo di paternità obbligatorio a una lavoratrice, madre “intenzionale”, in una coppia di donne risultanti genitori dei registri dello stato civile riconoscendo, di conseguenza, il diritto al congedo anche a quest’ultima. La norma in questione è stata riconosciuta contraria agli articoli 3 e 117 comma 1 Cost., quest’ultimo quest’ultimo in relazione agli artt. 2 e 3 della direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e all’art. 4 della direttiva (UE) 2019/1158, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, il quale stabilisce che gli Stati membri riconoscano il diritto al congedo di paternità obbligatorio al secondo genitore equivalente ove riconosciuto nel diritto interno. L’incostituzionalità della norma è per la Corte logica conseguenza del già avvenuto riconoscimento della validità delle trascrizioni nei registri civili italiani degli atti esteri di nascita con indicazione di due madri e risponde all’esigenza di tutelare l’interesse del minore ad avere genitori che se ne prendano cura.
La Consulta dichiara l’incostituzionalità del tetto massimo delle 6 mensilità dell’indennizzo per licenziamento illegittimo dei lavoratori delle piccole imprese
Dove non è arrivato il referendum della CGIL è arrivata la Corte costituzionale. Con la sentenza n. 118 depositata lo scorso 21 luglio i Giudici delle leggi dichiarano infatti l’incostituzionalità del tetto massimo delle 6 mensilità dell’ultima retribuzione come importo dell’indennizzo previsto dall’art. 9, comma 1, d.lgs. 23/15 per i lavoratori impiegati in aziende che non occupino più di 15 dipendenti. L’esito della sentenza era in buona parte scontato, facendo seguito al monito rivolto al legislatore dalla stessa Corte con la precedente sentenza 183/22, che aveva fatto salva la normativa in questione a condizione che questi intervenisse prontamente a riformarla. L’inerzia del legislatore ha dunque reso inevitabile la censura di incostituzionalità, dovuta all’evidente inadeguatezza dell’importo dell’indennizzo, schiacciato tra un minimo e un massimo (3-6 mensilità) talmente esiguo da non consentirne la necessaria personalizzazione che tenga conto delle circostanze del caso specifico. Resta in vigore invece la regola del dimezzamento dell’indennizzo rispetto a quanto previsto dallo stesso d.lgs. 23/15 per i dipendenti delle imprese con più di 15 dipendenti, che (si suppone) porta a configurare un nuovo “tetto” di 18 mensilità (la metà cioè delle 36 previste dall’art. 3, comma 1, d.lgs. 23/15). Resta l’auspicio dei Giudici delle leggi di un intervento legislativo che riformi la materia tenendo conto del fatto che il criterio del numero dei dipendenti non costituisce più l’esclusivo indice rivelatore della forza economica dell’impresa e quindi della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi.
Bollettino-4-2025
Approvata la legge sulla partecipazione dei lavoratori: l’art. 46 della Costituzione può attendere
L’intento dichiarato della Legge n. 76 del 15 maggio 2025 (in vigore dal 10 giugno) è di dare attuazione all’art. 46 Cost. attraverso disposizioni che introducono nell’ordinamento forme di “partecipazione gestionale,
economica e finanziaria, organizzativa e consultiva dei lavoratori
alla gestione, all’organizzazione, ai profitti e ai risultati nonche’
alla proprieta’ delle aziende” (art. 1). In realtà la legge (radicalmente emendata rispetto all’originaria proposta promossa dalla CISL) lascia il perseguimento di tale epocale finalità in mano ai datori di lavoro, che “possono” ammettere rappresentanti dei lavoratori all’interno dei consigli di sorveglianza e di amministrazione delle aziende (artt. 3 e 4). Quanto alla partecipazione agli utili e finanziaria, le nuove norme si risolvono in un (debole) incentivo fiscale alla sua introduzione per via negoziale (artt. 5 e 6). In cambio di tutto ciò (cioè poco o nulla), si profila il rischio di un’indebolimento dei diritti sindacali esistenti, che permettono l’esercizio di un effettivo contro-potere nei luoghi di lavoro. Preoccupano soprattutto le disposizioni relative alla partecipazione “consultiva” (artt. 9 e 10), per il possibile effetto di “erosione” dei diritti di informazione e consultazione, già presidiati da un ampio e solido apparato normativo di origine unionale, nonchè del diritto alla contrattazione collettiva.
Bollettino-3-2025
La Cassazione legittima le forme di lotta sindacale diverse dallo sciopero grazie ad una innovativa valorizzazione delle fonti internazionali
La sentenza della Cassazione n. 2596 dello scorso 11 aprile può segnare un significativo passo avanti nella giurisprudenza nazionale in materia di conflitto sindacale. I Giudici di legittimità infatti riconoscono che qualsiasi forma di lotta sindacale costituisca espressione del diritto all’azione collettiva, che comprende ma non si esaurisce nel diritto di sciopero sancito dall’art. 40 Cost. Se infatti quest’ultimo implica necessariamente l’astensione dal lavoro, la prima può integrare anche condotte “attive” dei lavoratori, espressione comunque del più ampio principio di libertà sindacale garantito dall’art. 39 Cost. A questa conclusione la Cassazione giunge valorizzando anche le fonti internazionali, in specie quelle europee, che attribuiscono rilievo di diritto fondamentale al “diritto di azioni collettive” (art. 6.2 della Carta sociale europea e art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE). Nel caso di specie, ciò ha comportato il riconoscimento della nullità dei licenziamenti intimati a dei lavoratori che avevano rifiutato di svolgere l’attività secondo turni imposti unilateralmente dall’azienda. Ne consegue un cambio di orientamento nella giurisprudenza sul c.d. sciopero delle mansioni, ad oggi consolidata nel considerarlo illegittimo.
Con il c.d. decreto sicurezza diventa reato il blocco stradale attuato con il proprio corpo: a rischio la libertà sindacale
Approvato il c.d. decreto “sicurezza” (d.l. 11 aprile 2025, n. 48), in evidente spregio dei requisiti di necessità e urgenza richiesti dall’art. 76 Cost. per l’adozione dei decreti legge. Tra le innumerevoli disposizioni liberticide contenute nel decreto, rischia di incidere pesantemente sulla libertà sindacale l’art. 14 (di riforma degli artt. 1 e 1-bis del d.lgs. n. 66 del 1948, “Norme per assicurare la libera circolazione sulle strade ferrate ed ordinarie e la libera navigazione”) che, modificando le già repressive disposizioni introdotte dal c.d. decreto Salvini (d.l. 113/18), rende penalmente perseguibili anche le condotte che ostacolano la circolazione stradale attraverso forme di resistenza passiva (c.d. barriera umana), sino ad oggi sanzionate soltanto per via amministrativa. Il blocco stradale causato (dolosamente o colposamente) con il proprio corpo espone adesso chi lo realizza alla pena della multa fino a 300 euro e la reclusione fino a un mese, che può arrivare a due anni se la condotta è collettiva; cioè sempre quando è realizzato nel contesto di un conflitto sindacale
Bollettino-2-2025
Incostituzionale il requisito di residenza decennale per l’accesso al reddito di cittadinanza: ragionevole prevederne uno di 5 anni
La Corte costituzionale dichiara l’incostituzionalità della disciplina, ormai non più in vigore, del reddito di cittadinanza, per contrarietà con l’art. 3 Cost del requisito di decennale residenza in Italia che essa poneva a condizione della sua erogazione (sentenza n. 31/25 depositata il 20 marzo). Tale requisito deve considerarsi contrario all’art. 3 Cost. in quanto irragionevole, cioè di durata eccessiva. Tuttavia, è ammissibile (anzi, perfino doveroso) condizionare l’erogazione di tale prestazione al requisito di 5 anni, che garantisce l’esistenza di minimo radicamento territoriale del cittadino straniero in Italia. La discriminazione che ne consegue (di natura indiretta), è infatti giustificata da ragioni oggettive, prima fra tutte l’esigenza di garantire l’equilibrio delle finanze pubbliche. L’effetto della sentenza si proietta anche sulla vigente disciplina dell’assegno di inclusione che ha sostituito il reddito di cittadinanza, legittimando sul piano costituzionalmente il requisito quinquiennale di residenza previsto per la sua erogazione.